Di Maria Pecciarini –

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Ciascun periodo storico, dall’antichità all’epoca moderna, è costellato di grandi nomi che hanno determinato il corso della storia; a loro si ergono monumenti, si intitolano piazze e si dedicano ore di lezione nelle scuole di tutto il mondo. Tuttavia, molti ignorano che, nel cono d’ombra di questi personaggi, ce ne siano stati altri, a cui non spetta la medesima gloria, ma che hanno avuto un ruolo altrettanto decisivo per l’andamento degli eventi: gli interpreti. È proprio grazie a queste figure rimaste in disparte che si sono firmati trattati, si sono raggiunti accordi e si sono condotte trattative fra Stati anche nei periodi di tensione più marcata; fra questi ultimi, senza alcun dubbio, spicca quello della Guerra Fredda, che ha visto colloqui fra leader politici quali Churchill, Brežnev o Chruščëv. In tali occasioni, gli interpreti si sono trovati in una posizione di particolare responsabilità, poiché una parola al posto sbagliato avrebbe potuto avere esiti disastrosi. Grazie a libri autobiografici scritti dagli stessi interpreti o a episodi raccontati da altri presenti, possiamo provare a immedesimarci in un interprete dell’epoca che, oltre a tradurre, era consapevole che un passo falso avrebbe potuto portare a conseguenze irreversibili; gli aneddoti di seguito riportati ci consentono di metterci nei panni degli interpreti durante quegli anni di tensione.

La lealtà dell’interprete

In contesti quali la Guerra Fredda, era fondamentale che l’interprete avesse un forte senso di lealtà nei confronti del proprio paese, poiché avrebbe potuto altrimenti rivelare segreti di stato (cfr. Baigorri-Jalón, Fernández-Sánchez 2010). Era vitale che la figura politica da lui accompagnata avesse piena fiducia nei suoi confronti, poiché l’interprete era l’unica persona al tavolo in grado di comprendere entrambe le lingue della comunicazione (cfr. Baigorri-Jalón 2010: 8). Un episodio narrato da Birse, l’interprete di russo di Churchill, dimostra come lealtà e fiducia fossero elementi chiave nelle trattative. Durante la visita di Churchill a Stalin presso il Cremlino, il politico britannico dovette a un certo punto andare in bagno. Birse rimase quindi nella sala con Stalin, che iniziò a fare domande all’interprete su come avesse imparato il russo. Quando Churchill tornò e li trovò a chiacchierare si mostrò profondamente turbato, e Birse dovette affrettarsi a illustrare quale fosse l’argomento della loro conversazione (cfr. Birse 1967: 104).

Joseph Stalin, Franklin D. Roosevelt e Winston Churchill durante la Conferenza di Teheran (1943), nella quale Birse lavorò come interprete.

Quando si è troppo fedeli all’originale

Un altro fatto dimostra quanto la lealtà e la fiducia avessero un ruolo decisivo nella professione dell’interprete, e come la mancanza di questi elementi potesse metterne a repentaglio l’intera carriera. Si tratta di George Sherry, un interprete dell’ONU che divenne la voce inglese del Viceministro (e poi Ministro) degli Affari Esteri sovietico Andrej Višinskij. Nel 1947 Sherry, convinto sostenitore delle posizioni anticomuniste occidentali, interpretò l’acceso discorso di Višinskij all’ONU contro il capitalismo restando estremamente fedele al pathos dell’originale russo, tanto che il 19 settembre 1947 il New York Times riportò: “Deputy Foreign Minister Andrei Y. Vishinsky spoke yesterday in tones that were in quick succession impassioned, angry, sarcastic, sardonic, pleading and furious […] And the English translation came through the walkie-talkie sets in the General Assembly in tones that were just as impassioned, angry, sarcastic, sardonic, pleading and furious.” (“Il Viceministro degli Affari Esteri Andrej J. Višinskij ha parlato ieri ricorrendo a una rapida successione di toni ferventi, arrabbiati, sarcastici, sardonici, imploranti e furiosi […] E la traduzione inglese arrivata tramite i walkie-talkie dell’Assemblea Generale ha fatto ricorso a toni altrettanto ferventi, arrabbiati, sarcastici, sardonici, imploranti e furiosi”). Questo, però, non giocò a favore di Sherry: egli fu infatti accusato dagli ascoltatori di stare dalla parte dei Sovietici e di essere “uno di loro” (cfr. Baigorri-Jalón, 2010: 8).

Andrej Januar’evič Vyšinskij, Ministro degli Esteri Sovietico dal 1948 al 1953

“Vi seppelliremo!”

Alla tradizionale difficoltà dell’interpretazione legata alla ricerca di una buona soluzione in tempi stretti, si aggiungeva anche la problematica di una traduzione che non incrinasse i rapporti diplomatici fra le potenze. Una resa, in particolare, è stata contestata in quanto inadeguata ed è stata poi usata dalla propaganda americana: alla reception dell’ambasciata polacca a Mosca, il 18 novembre 1956, Chruščëv esclamò in russo rivolto agli ambasciatori del blocco occidentale: «Мы вас похороним!» (My vas pochoronim!, letteralmente “Vi seppelliremo!”), frase che l’interprete personale di Chruščëv, Viktor Suchodrev, tradusse letteralmente in inglese come “We will bury you!”, e che fu poi strumentalizzata dai media occidentali. Stephen Pearl afferma a tale proposito:

Anche le infinite dispute medievali su “my vas pochoronim” sembrano dimenticarsi del fatto che, nella nota occasione in cui è stata pronunciata, la resa inglese dell’interprete sia stata il prodotto dell’interpretazione simultanea, e non di una traduzione ponderata. Si allude al fatto che l’interprete avrebbe dovuto dire qualcosa di diverso o “migliore”. “Noi vi seppelliremo” non è affatto una cattiva resa dell’originale. L’incauto interprete che si allontana troppo dal significato letterale durante un’accesa discussione si ritrova in una situazione senza via d’uscita. Se lui o lei traduce “pochoronim” con “seppellire”, i traduttori del lunedì mattina forse gli faranno altezzosamente presente che avrebbe dovuto optare per “vivere più a lungo di” o “sopravvivere a”. Se lui o lei sceglie una di queste due soluzioni e un altro partecipante all’incontro poi reagisce al commento del delegato, il parlante russo iniziale potrebbe ricevere una retro-traduzione secondo cui avrebbe detto “perežit’” o vyžit’” [“vivere più a lungo di” o “sopravvivere a”] al posto di “pochoronit’”. A questo punto, non in modo totalmente ingiustificato, metterà alla gogna il povero interprete per “non saper come tradurre una semplice parola russa come “pochoronit’”. È una situazione estremamente complessa.

Ciò dimostra come spesso gli interpreti si trovassero fra l’incudine e il martello, e come talvolta qualsiasi scelta traduttiva potesse diventare fonte di incomprensioni o di inasprimento dei rapporti.

Nikita Chruščëv e John F. Kennedy,
Vienna, Giugno 1961

La bottiglia di vodka

Agli interpreti di alto livello durante la Guerra Fredda non capitava solo di tradurre trattative formali, ma anche situazioni più colloquiali e di “dietro le quinte”, come quella raccontata da Suchodrev nelle sue Memorie (1999: 308-309). Durante la visita di Brežnev a Nixon, questo offre agli ospiti un bicchiere di vodka:

La porta si aprì ed entrò un cameriere filippino alle dipendenze di Nixon. Portò una fumante bottiglia di Stoličnaja e versò della vodka nel bicchiere di ciascuno. Nixon non mancò di sottolineare di aver fatto portare la bottiglia appositamente per il suo ospite. Brežnev alzò il bicchiere, fece un breve brindisi e bevve tutto “alla goccia”, secondo lo stile russo. Inizialmente, Nixon bevve un piccolo sorso di vodka, secondo l’usanza americana, ma dopo aver visto come aveva fatto Brežnev, seguì il suo esempio. Dopo aver cambiato i piatti, il filippino ricomparve, stavolta con una bottiglia di vino secco. Lo versò e se ne andò. Brežnev guardò il vino, poi si girò e mi chiese di dire a Nixon di far tornare il cameriere con la bottiglia di Stoličnaja. Nixon a sua volta si rivolse a me: “Viktor, there’s a button over there by the door. Would you press it for me?” (“Viktor, c’è un pulsante vicino alla porta, potresti premerlo?”). Pigiai il pulsante e il cameriere tornò immediatamente con un’espressione alquanto confusa sul volto. Nixon gli chiese di riportare la vodka. Il filippino tornò con la “nostra” bottiglia aperta, riempì i nostri bicchieri e stava per riportarla via, quando Brežnev gli disse, in russo, qualcosa come “lasciala sul tavolo e vedremo cosa farne”. Tradussi velocemente le sue parole prima che il cameriere avesse il tempo di scomparire oltre la porta. In breve, alla fine della cena avevamo fatto fuori la bottiglia di Stoličnaja.

Relativamente a questo aneddoto, è interessante notare la complicità fra i capi politici e i loro interpreti, dovuta anche alla totale fiducia che i primi riponevano nei secondi: Nixon, ad esempio, chiama Suchodrev per nome, Viktor, a riprova dell’intimità fra i leader e gli interpreti; inoltre, un certo senso di cameratismo si avverte quando Brežnev ricerca la complicità dell’interprete nel tentativo di non far portare via la bottiglia di vodka (cfr. Baigorri-Jalón, Fernández-Sánchez 2010: 20-21).

Trattative fra Leonid Brežnev e Richard Nixon, interpretate da Viktor Suchodrev (al centro).

Gli interpreti durante la Guerra Fredda sono stati sicuramente delle figure estremamente complesse e sfaccettate, e questi aneddoti raccontano solo una minima parte del lavoro da essi svolto; tuttavia, questi brevi episodi sono sicuramente dei chiari esempi sia dei contesti più svariati che poteva capitare di tradurre, sia delle possibili conseguenze che una resa “sbagliata” poteva comportare non solo per la carriera del singolo interprete, ma anche per le sorti del mondo intero.

Per saperne di più:

Un’intervista in russo a Suchodrev, interprete personale di Chruščëv, Brežnev e Gorbačëv:

https://www.youtube.com/watch?v=nWa0edoOFpw (prima parte)

Bibliografia

Baigorri-Jalón, J. (2010). Wars, languages and the role(s) of interpreters. Wars, languages and the role(s) of interpreters. Les liaisons dangereuses: langues, traduction, interprétation, Dec 2010, Beyrouth, Lebanon. p. 173 – 204, 2011, Sources-Cibles.

Disponibile in: https://hal-confremo.archives-ouvertes.fr/hal-00599599/document

 

Baigorri-Jalón, J. e Ma M. Fernández-Sánchez (2010). “Understanding Hig-level Interpreting in the Cold War: Preliminary Notes”, Forum 8(2): 1-29, Presses de la Sorbonne Nouvelle, 2010.

Birse, A. H. (1967). Memoirs of an Interpreter. New York: Coward-McCaan Inc.

Suchodrev, V. (1999). Jazyk moj-drug moj, Ot Chruščeva do Gorbaceva. Mosca: Olymp, Izdatelstvo ACT

L’autrice

Mi chiamo Maria Pecciarini e sono un’ interprete e traduttrice freelance di madrelingua italiana; le mie lingue di lavoro sono il russo e l’inglese. Mi sono laureata in Interpretazione alla SLLTI (ex SSLMIT) di Forlì, e durante la mia formazione ho affinato la conoscenza delle lingue studiando e lavorando a Mosca, a Cambridge e in Irlanda. Ciò che adoro della professione dell’interprete è la varietà dei settori con cui si viene a contatto: alcuni dei campi che questo lavoro mi ha portato ad approfondire sono la moda, l’educazione, la pasticceria, l’ecologia, macchine strumentali, l’oil e gas, lo sport, la religione e molti altri. Non esitate a contattarmi via mail o a cercarmi su LinkedIn:

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