Di Giorgia Mangoni

L’interpretazione medica nell’ambito ospedaliero

Al sentire le parole “interpretazione medica” si pensa immediatamente ad importanti convegni tenuti da luminari della medicina. In questo articolo però voglio porre l’attenzione su un’attività in un certo senso più “umile”, ma sicuramente non meno importante, anzi. Sto parlando di quella forma di interpretazione che permette ad un paziente che non condivide la lingua (e molto probabilmente la cultura) della struttura sanitaria cui si trova di rivolgersi al personale, di ricevere informazioni e cure adeguate, e di capire tutto ciò che gli succede intorno e che lo coinvolge in prima persona. Generalmente, si assimila questa pratica al più vasto concetto di community interpreting, ovvero interpretazione di comunità. In questo mio articolo d’esordio vorrei far luce su alcune problematiche e contraddizioni esistenti in questa sfera dell’interpretazione (e fare anche un po’ di sana polemica, me ne assumo le responsabilità). Parlando della situazione attuale non farò riferimento esclusivamente al nostro paese, ma più in generale al mondo occidentale, poiché le problematiche di cui parlerò sono condivise da molti paesi che ne fanno parte. Inutile dire che in altre aree del mondo la situazione per gli immigrati nelle strutture sanitarie locali è di gran lunga peggiore, ma questo è un capitolo a parte.

Procediamo quindi con ordine. Di che cosa stiamo parlando, in fin dei conti? Stiamo parlando di tutte quelle forme di interpretazione che vengono realizzate all’interno di istituzioni sanitarie di vario tipo (ospedali, cliniche, ambulatori, privati e pubblici) a beneficio, nella maggior parte dei casi, di persone di recente immigrazione nel paese, che quindi non padroneggiano ancora la lingua del paese ospitante (o addirittura non la comprendono né parlano affatto). La loro controparte è, in questo caso, il personale della struttura sanitaria in questione: medici, infermieri, operatori sanitari, personale amministrativo, etc.

E chi si occupa di svolgere l’interpretazione, che nella maggior parte dei casi è di tipo dialogico? Spoiler: di solito non è un professionista qualificato e idoneo a svolgere questo compito delicato. In questo settore “lavorano” infatti due categorie diverse di interpreti. Vi starete chiedendo il perché delle virgolette, immagino. Beh, ve lo spiego subito: la prima categoria è quella degli interpreti di comunità, che lavorano nel sociale. La seconda è costituita dagli interpreti familiari. Eh già. Non dei professionisti dell’interpretazione, che hanno studiato, hanno fatto pratica, si sono preparati e vengono adeguatamente pagati per il lavoro che svolgono, ma dei membri della famiglia dei pazienti, che non solo non posseggono le competenze tecniche per svolgere questo compito, ma spesso nemmeno quelle linguistiche. Si tratta infatti spesso di parenti del paziente che molto semplicemente si rendono disponibili e hanno una capacità comunicativa nella lingua parlata dal personale sanitario superiore a quella del paziente. Nel migliore dei casi si tratta di persone bilingui, nel peggiore di persone con un livello linguistico che gli consente a malapena di gestire la conversazione quotidiana. Figuriamoci un’interpretazione da e verso la lingua straniera in ambito medico.

Inutile dire che l’avvalersi di interpreti familiari in ambito medico vada contro ogni logica e buonsenso, per un’infinità di ragioni. A rischio di constatare l’ovvio, le menziono brevemente di seguito:

  • Un interprete improvvisato potrebbe non avere (diciamo pure che molto probabilmente non ha) competenze linguistiche sufficienti a svolgere questa attività in modo adeguato.
  • Un interprete improvvisato ha quasi sicuramente competenze culturali approfondite riguardo alla cultura del paziente (che condivide), ma potrebbe non possedere competenze sufficienti nella cultura del personale sanitario. Si tratta infatti spesso di persone non ancora del tutto inserite nel paese di immigrazione.
  • Un interprete improvvisato non ha nessuna competenza tecnica riguardo all’interpretazione di trattativa (ma questo è il minore dei problemi).
  • Un interprete improvvisato potrebbe non avere competenze mediche sufficienti a comprendere alcuni concetti (ed essere poi in grado di spiegarli al paziente). Si suppone che un interprete abituato a lavorare nell’ambito medico sia molto più preparato a riguardo.
  • Un interprete improvvisato non segue nessun codice deontologico, quindi non è tenuto a rispettare nessun criterio di completezza o accuratezza, e potrebbe pertanto manipolare ciò che viene detto a suo piacimento, omettendo informazioni che ritiene troppo “dolorose” per essere riferite al paziente, per esempio.
  • Il paziente potrebbe non sentirsi a proprio agio a parlare di argomenti “tabù” o ritenuti più imbarazzanti (legati, ad esempio, alla sfera sessuale) di fronte ad un membro della propria famiglia.
  • Un interprete improvvisato potrebbe “intromettersi” nella conversazione esprimendo le proprie opinioni e intralciando così la comunicazione medico-paziente, che risulterebbe in questo modo “appesantita” da un partecipante, e molto più difficoltosa per il professionista sanitario.

Per completezza, menziono anche i (pochi) vantaggi che presenta l’avvalersi di un interprete familiare evidenziati dalla letteratura di riferimento:

  • I pazienti appartenenti a comunità molto piccole e “chiuse” potrebbero mostrare molta diffidenza nei confronti di un interprete professionista – un perfetto sconosciuto, in fin dei conti – e rifiutarsi di comunicare informazioni riguardanti una sfera intima come quella della propria salute in sua presenza. In questo caso, un interprete familiare potrebbe essere l’unica soluzione.
  • Un interprete che è anche un membro della famiglia potrebbe essere in grado di contribuire alla conversazione con informazioni utili per il medico o membro del personale sanitario in questione, che potrebbero consentire una diagnosi più accurata e l’elaborazione di un percorso di cura più efficace.

Detto questo, risulta evidente che “usare” come interpreti dei membri della famiglia del paziente più o meno in grado di padroneggiare la lingua della società ospitante (e della struttura sanitaria) e più o meno integrati nella cultura locale, non sia la migliore delle strategie. Senza contare il fatto che spesso vengono chiamati a ricoprire questo ruolo di interprete improvvisato persone che non sono nemmeno parte della famiglia: conoscenti, membri del personale sanitario, impiegati dell’ospedale oppure addirittura sconosciuti “reclutati” nelle sale d’attesa, che dichiarano di avere una conoscenza delle due lingue coinvolte nell’interazione sufficiente a permettere loro di fare da interprete. Che le abbiano davvero o meno, nessuno si preoccupa di verificarlo.

Anche quando prendiamo in considerazione lo scenario migliore, quello in cui a svolgere l’interpretazione è un interprete di comunità, la situazione non è molto più rosea, purtroppo. Anche in questo caso, infatti, ci sono diversi problemi all’orizzonte.

Tanto per cominciare, nella maggior parte dei paesi occidentali non ci sono dei precisi criteri di selezione condivisi a livello nazionale da tutte le strutture sanitarie. Lo screening risulta spesso inadeguato, e vengono assunte per ricoprire questo ruolo figure professionali con livelli di preparazione e bagaglio di esperienze molto diversi tra loro, che non sempre risultano effettivamente idonee a svolgere l’incarico. Tra l’altro, come spesso avviene per l’interpretariato in ambito sociale, non è sempre possibile trovare un interprete che parli esattamente la stessa lingua del paziente, e si passa spesso attraverso una terza lingua per la comunicazione con l’interprete, che non è né la lingua del paziente né quella del medico.

Ma come mai ci si ritrova in questa situazione? Molto semplice: questione di fondi. Le paghe offerte ai community interpreters sono spesso bassissime, e non incentivano per nulla gli interpreti più preparati e competenti a perseguire una carriera in questo settore.

Ovviamente, si sa, i tagli alla sanità pubblica sono un annoso problema di difficile soluzione, e la mancanza di interpreti adeguati a svolgere questo ruolo nelle strutture sanitarie non è certo la conseguenza più grave. Però, personalmente, trovo molto contraddittorio che ad interpretare ai convegni di medicina ci sia solo la crema dell’interpretazione, mentre quando c’è in gioco la vita dei pazienti negli ospedali la consulenza dello zio Juan vada più che bene (senza nulla togliere allo zio Juan, per carità). Così come nella maggior parte dei paesi occidentali in tribunale, ad esempio, è riconosciuto ad un immigrato il diritto ad avere un interprete che parli la propria lingua, mi sembra il minimo che lo stesso diritto venga riconosciuto in ambito sanitario. In fin dei conti si tratta della salute fisica e mentale delle persone, che cosa c’è di più importante?

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