Di Ilaria Campostrini –

Nell’organizzare una conferenza o un altro tipo di evento per cui è previsto il servizio di interpretazione simultanea, c’è un dettaglio da tenere in considerazione che gli interpreti danno per scontato e di cui invece, molto spesso, i clienti non sono a conoscenza. Si tratta di un particolare non trascurabile se si vuole assicurare un’interpretazione di qualità (e dunque la buona riuscita dell’evento), una sorta di regola non scritta di cui ogni interprete professionista conosce l’importanza: in cabina di interpretazione si lavora sempre almeno in due.

La notizia potrebbe arrecare qualche fastidio a chi, dovendo finanziare l’organizzazione dell’evento, non aveva preso in considerazione l’idea di dover retribuire ben due interpreti per ogni combinazione linguistica per tutta la durata della conferenza; d’altronde – ci si chiederà – non è forse un po’ come pagare due persone perché si dividano il lavoro a metà? Beh, non proprio. In questo articolo cercheremo di chiarire perché per gli interpreti sia imprescindibile lavorare in coppia in cabina e di illustrare in che modo l’interprete continui a fare il proprio lavoro anche quando non è la sua la voce che il pubblico ascolta.

Vale la pena premettere che, in realtà, non si tratta esattamente di una regola non scritta. L’AIIC (Associazione Internazionale Interpreti di Conferenza), nel delineare le norme professionali che i membri dell’associazione sono tenuti ad osservare nello svolgimento del proprio lavoro, afferma che “in linea di principio, l’équipe deve essere composta da almeno 2 interpreti per lingua e per cabina, al fine di garantire per tutte le lingue una buona copertura e una qualità adeguata.”[1]

E dunque, perché è così importante essere in due?  Il primo, vero, fondamentale motivo per cui è imprescindibile avere un compagno di cabina è che l’interpretazione simultanea è un’attività estremamente faticosa dal punto di vista cognitivo. Il noto modèle des efforts (modello degli sforzi)[2], elaborato dallo studioso francese Daniel Gile negli anni ‘90, ci aiuta a capire come lavora la mente di un interprete. Stando a questo modello, l’interpretazione simultanea è un processo cognitivo che si basa essenzialmente su tre sforzi:

ascolto (e analisi): è lo sforzo che consente di analizzare i suoni percepiti, identificare le parole e, quindi, comprendere le frasi che si ascoltano;

produzione: questo sforzo comprende tutte le operazioni che vanno dalla rappresentazione mentale del messaggio fino ad arrivare alla resa nell’altra lingua;

memoria: tale sforzo implica l’attivazione della memoria a breve termine, necessaria al compimento di tutte le operazioni che si susseguono durante l’interpretazione simultanea.

Per coordinare i tre sforzi e compiere tutti i passaggi in modo continuo e ripetuto, è necessario un livello di concentrazione molto alto che non è possibile mantenere per più di 20-30 minuti, a seconda di diversi fattori che influiscono sulla complessità del discorso (argomento tecnico, velocità di eloquio e altri). Di conseguenza, trascorso questo lasso di tempo, l’interprete fatica a mantenere alta la qualità della sua resa interpretativa e quindi passa il microfono al collega che, dopo aver avuto i suoi 20-30 minuti di pausa, può garantire la continuità della traduzione.

A essere onesti, questi preziosi minuti di riposo non rappresentano una vera e propria pausa per l’interprete poiché, anche mentre non traduce, egli è comunque al lavoro. Si può dire che questi 20-30 minuti siano più che altro un momento in cui è consentito abbassare leggermente la concentrazione, tuttavia l’interprete continua a seguire ciò che avviene in sala e cerca di non perdere il filo del discorso, per non essere poi colto di sorpresa quando sarà di nuovo il suo turno. Oltre a questo, spesso il compagno di cabina si mantiene attivo grazie al cosiddetto prompting: come spiega in modo piuttosto esaustivo la collega Maria in questo articolo, il prompting è l’attività di supporto a chi in quel momento sta interpretando da parte del collega “a riposo”. Quest’ultimo infatti può dare un aiuto prezioso al collega consultando glossari e dizionari, annotando numeri, individuando sulle slide dati e nomi citati dall’oratore, insomma, cercando di fornire qualunque suggerimento utile.

Va detto, tuttavia che il prompting non è una pratica obbligatoria né indispensabile. Nel lasso di tempo in cui non ha il microfono, l’interprete è libero di uscire dalla cabina, di sgranocchiare qualcosa, di usare lo smartphone, di fare cruciverba o di prenotare una vacanza al mare: insomma, può decidere di prendersi una vera e propria pausa. Naturalmente – e qui mi rivolgo ai colleghi interpreti, aspiranti e non – qualunque cosa si decida di fare è bene farla mantenendo sempre una certa dose di rispetto e di buon senso. La cabina, il più delle volte, è uno spazio piccolo, e doverlo condividere con un collega che disturba, fa rumore o lascia fogli e oggetti personali in disordine sul piano d’appoggio o per terra può diventare un’esperienza spiacevole. Allo stesso modo, il rispetto e il buon senso sono i principi che dovrebbero spingere gli organizzatori di un evento a fornire agli interpreti le condizioni ottimali affinché possano svolgere al meglio il proprio lavoro, a partire dall’ingaggio di almeno due interpreti per ogni lingua coinvolta. Insomma, come avviene in ogni situazione, se tutte le parti dimostrano professionalità, rispetto e buon senso, la giornata di lavoro sarà indubbiamente più gradevole per tutti e il successo dell’evento è assicurato.

Mi chiamo Ilaria Campostrini e per me, essere un’interprete significa costruire ponti per avvicinare le persone e aiutarle a raggiungere i propri obiettivi.

Spinta dalla passione per le lingue straniere e dalla voglia di conoscere mondi nuovi, mi sono formata come interprete e traduttrice per le lingue spagnolo e inglese. Durante la mia carriera accademica ho voluto perfezionare la mia formazione affiancando lo studio alla pratica, e ho quindi svolto diverse esperienze di lavoro a Barcellona (Spagna) e a Limerick (Irlanda), oltre che nella mia città natale, Verona. Ho concluso la Laurea Magistrale in Interpretazione alla SSLTI (ex SSLMIT) di Forlì con una tesi sulla terminologia medica, con particolare attenzione al settore della traumatologia.

Di questo lavoro amo la necessità di imparare qualcosa di nuovo ogni giorno e la possibilità di migliorarsi costantemente. Tra i settori in cui ho prestato la mia voce – o la mia penna – ci sono l’arte, l’istruzione, i diritti umani, l’ambito medico, l’ambito economico, il settore della birra e il turismo. Mi ritengo una persona capace di ascoltare, di collaborare, e di adattarsi senza difficoltà alle situazioni più varie.

 

[1] Norme professionali AIIC, art. 7.3 http://aiic-italia.it/node/16352/norme-professionali/lang/72

[2] Gile D. (1995), Basic concepts and models for interpreter and translator training, John Benjamins, Amsterdam-Philadelphia

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