Di Eleonora Giglio –
Pubblicità e traduzione qualche decennio fa…
Negli anni ’80 e ’90 la rapida crescita del commercio a livello globale portò alcune aziende, che aspiravano a una via semplice ed economica per l’internazionalizzazione, a creare campagne pubblicitarie nel paese di partenza, diffondendole poi tradotte o lasciate in inglese, senza preoccuparsi di adattamenti culturali per il paese di arrivo. L’articolo The Globalization of Markets (1983) del professor Levitt di Harvard contribuì a giustificare la standardizzazione nelle campagne pubblicitarie, sostenendo che, con la globalizzazione dei mercati, i bisogni e i desideri dei consumatori si fossero del tutto omologati. Con la fine del processo di differenziazione, si tralasciò, però, un assunto importante: la pubblicità è basata su un uso creativo delle parole, che nella maggior parte dei casi rinviano a espressioni idiomatiche, pregne di riferimenti culturali. Il sistema di significati, di immagini e di simboli a cui rimanda la pubblicità non può in nessun modo considerarsi universale, poiché ci si appella a elementi storici, sociali, ma anche mitici e artistici che sono propri di una nazione e variano inevitabilmente da paese a paese. Ciò significa che se uno slogan non attinge a questi riferimenti, il messaggio pubblicitario non riesce ad essere interpretato dallo “schema” culturale dei consumatori, i quali finiranno per ignorarne il contenuto. Nei casi peggiori, si può persino ottenere un risultato del tutto opposto rispetto all’obiettivo dello slogan.
Che cosa ha a che fare tutto questo con la traduzione?
Avendo sottolineato come i concetti e le idee elaborati in pubblicità siano strettamente legati alla cultura di partenza, apparirà chiaro allora che parole e frasi realizzate in una determinata cultura non saranno necessariamente significative per un’altra. Ecco come tutto questo potrebbe diventare una questione da affidare a dei traduttori professionisti.
Tuttavia, si usa il condizionale perché non sempre, purtroppo, le aziende hanno intrapreso scelte traduttive efficaci, limitandosi a riportare gli slogan nelle diverse lingue parola per parola. Anche quando le aziende hanno perseguito una politica di traduzione unificata, in inglese, per tutti i paesi toccati da una determinata campagna, i risultati non sono sempre stati di ottima qualità. Senza i dovuti accorgimenti culturali, in molte occasioni si sono prodotti strafalcioni esilaranti.
Tra i casi fallimentari più “innocui” nella trasmissione del messaggio, vi sono gli slogan basati su allitterazioni o rime per facilitare la memorizzazione del brand o del prodotto. Esempi di questo tipo sono stati “If anyone can, Canon can”; tradotto alla lettera in altre lingue è difficile, però, poter riprodurre lo stesso gioco di parole, si perde quindi la valenza. Lo slogan “O₂, see what you can do”, invece, gioca con la rima; è sufficiente, però, che il numero sia pronunciato in un’altra lingua per far sì che sparisca l’effetto.
I casi più problematici del passato (e più “pericolosi” per le implicazioni scaturite) si trovano nei nomi dei brand come Motorola, pronunciato me de lou la in cantonese, che significa “niente da prendere”, e come la Peugeot 416, che diventa si yi lu in alcuni dialetti del sud della Cina e significa “morire lungo la strada”. Sia nel primo che nel secondo caso, si tratta di accostamenti poco raccomandabili, per ovvie ragioni, e privi di successo presso i consumatori.
Altri esempi curiosi si nascondono nei modelli di auto, come la Ford Nova e la Volkswagen Jetta. La prima è stata fallimentare in particolare in spagnolo perché no va significa ‘non funzionante’. La seconda in Italia, per una semplice tendenza a pronunciare la lettera ‘j’ /i/, invece di /ge/ alla maniera americana (sebbene il brand sia tedesco); ne nacque una facile associazione con la parola ‘iella’, del tutto diversa dall’intento originale dei pubblicitari, che avevano creato un gioco di parole su ‘jet’ per insistere sulle proprietà estremamente performanti del veicolo.
Un altro caso interessante è stato lo spot inglese del Bacardi Breezer (2002) trasmesso anche nei Paesi Bassi, senza porre la dovuta attenzione ai rimandi linguistici e culturali. La pubblicità stabiliva un’associazione tra un gatto e la figura del donnaiolo, giocando con la parola tomcat, che in inglese indica colui che corre dietro alle donne. Traducendo lo spot in olandese, si è prodotta un’ulteriore allusione che molto probabilmente non intendeva essere comunicata, infatti l’equivalente di tomcat è kater, parola che indica i postumi della sbornia. Inoltre, nello spot, la padrona dell’animale, vedendolo rincasare stanco, gli chiede se sia stato fuori tutta la notte a caccia di uccelli. Il riferimento al genere femminile che intende creare il gioco di parole non fu, tuttavia, colto dalla maggior parte della popolazione olandese, non facendo parte del repertorio idiomatico.
Assodato, quindi, che la pubblicità è un mondo di concetti, idee e parole “imbrigliate” in un modo di pensare culturalmente determinato, ogni scelta (ma anche modalità) espressiva deve essere ponderata. Alcune culture sono più visive, altre più verbali; alcune prediligono uno stile comunicativo diretto, altre indiretto. Una buona collaborazione tra pubblicitari e traduttori permette di superare molti ostacoli, riuscendo a cogliere ed elaborare adeguatamente gli aspetti tipicamente specifici di una cultura.
Fonte:
DE MOOIJ M., 2004, Translating Advertising. Painting the Tip of an Iceberg. In: The Translator, X/2: 179-198