Di Elena Bernardeschi

Molto spesso i non addetti ai lavori non sanno in cosa consista la mediazione, o la legano soltanto all’idea di mediazione linguistica. In realtà, è un campo molto più ampio di quello che si possa immaginare poiché comprende numerose ramificazioni al suo interno, pur mantenendo gli stessi principi di base qualsiasi siano gli ambiti di applicazione.

Esiste la mediazione penale, educativa, aziendale, insieme a molte altre tipologie tra le quali quella linguistico-culturale, che non bisogna confondere con l’interpretazione. Quest’ultima è il trasferimento di informazioni da una lingua all’altra attraverso una traduzione orale che può essere effettuata in vari modi (interpretazione consecutiva o simultanea, ad esempio), mentre la mediazione linguistico-culturale si riferisce a situazioni in cui vi è una disparità di potere tra le parti che devono comunicare, una in posizione di fragilità rispetto all’altra poiché si trova a dover affrontare una situazione, a volte scomoda, in una lingua che non è la propria. Per questo, il mediatore deve avere una particolare preparazione e sensibilità rispetto alla cultura di appartenenza dell’altra persona, che molto spesso proviene da un mondo molto diverso rispetto a quello in cui viviamo.

Ma la traduzione cosa c’entra con tutto questo? In realtà, possiamo dire che il principio di base delle due discipline è lo stesso. «Tradurre», dal latino traducěre, «trasportare, trasferire» (comp. di trans «oltre» e ducĕre «portare») è il verbo dell’incontro, dell’accoglienza e quindi anche della mediazione. “Trasportare” una persona da una lingua all’altra, da un cultura all’altra, da un mondo all’altro, con l’aiuto dell’arma più potente che ci sia: la parola.

Ogni tipo di traduzione è una mediazione. Ad esempio, come dice la nostra Maria Pina Iannuzzi nel suo articolo, la traduzione giuridica è “una mediazione tra lingue e sistemi di diritto”; in questo caso, il traduttore deve far conciliare sistemi giuridici ed elementi linguistici diversi da Paese a Paese, non solo da lingua a lingua. In vari tipi di traduzione, come quella letteraria, chi traduce deve scegliere se ricorrere allo straniamento o alla domesticazione, ossia se rendere la parola o la frase a favore del testo di partenza o della cultura di arrivo. Spesso non esistono parole perfettamente equivalenti, ma il traduttore è obbligato a trovare una giusta mediazione. Mi ricordo, ad esempio, il termine “frittata” reso con tortilla nella versione spagnola di “La vita è bella”, o il mio professore di linguistica italiana quando affermava che uno svedese e un italiano non pensano alla stessa cosa quando pensano a un bosco. Insomma, un traduttore, oltre a dover prendere continuamente delle decisioni, deve effettuare una mediazione tra la lingua di partenza e quella di arrivo ad ogni scelta traduttiva.

Per questo, per essere un buon traduttore, ritengo necessario avere una certa dose di sensibilità, di coraggio, di apertura all’altro, di curiosità e di accoglienza delle diversità. Tutto ciò unisce chi si occupa di queste due discipline, così diverse e così simili allo stesso tempo.

Spero che questa mia breve riflessione su uno degli aspetti della pratica traduttiva possa far riflettere sul tipo di lavoro che c’è dietro a ogni traduzione. Tradurre significa andare al di là della grammatica di una lingua; è un processo mentale che implica ragionamenti profondi e veloci allo stesso tempo, pazienza e intuitività, la conoscenza della cultura della lingua da cui si traduce, oltre che la quasi maniacale attenzione ai dettagli durante la stesura del testo nella lingua d’arrivo. Il traduttore deve concentrare in sé molte qualità che non possono essere proprie di una macchina; è il filo conduttore tra mondi che nominano le cose diversamente, è un negoziatore tra le differenze, il garante dell’ospitalità di lingue e culture.

 

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