Di Eleonora Giglio –

Quando al traduttore viene commissionato un lavoro in ambito editoriale, egli sa che dovrà adottare delle strategie che seguono un ordine gerarchico e che tengono conto dei parametri del committente e del destinatario. Il ventaglio di scelte che si apre al traduttore spesso riguarda decisioni che si contrappongono l’una all’altra. Da questo emerge l’importanza d’ideare un progetto di traduzione coerente e “lungimirante”, come in una partita di scacchi, proprio perché ad una singola mossa sono concatenate tutta una serie di conseguenze.

Attualizzazione e storicizzazione

La prima decisione in ordine gerarchico riguarda l’attualizzazione o la storicizzazione del testo, ed è legata al concetto di distanza temporale tra il testo di partenza e il testo di arrivo. Attualizzare significa ridurre questa distanza, in modo che la traduzione sia letta dai lettori, connazionali al traduttore e suoi contemporanei, come il testo di partenza era recepito dal lettore coevo all’autore. Sarebbe come tradurre le opere di Shakespeare in un italiano più vicino possibile alla nostra lingua attuale.

Al contrario, storicizzare significa far percepire la distanza temporale al lettore della cultura di arrivo, contemporaneo al traduttore, come è accaduto nella maggior parte dei casi per le opere di Shakespeare:

Gli eserciti nemici
Mi pareano, Signor, due notatori
Che l’uno all’altro s’avviticchi, e tenti
Rallentar l’avversario, e fargli vana

L’arte e la possa

Se diamo un’occhiata a questa traduzione di alcuni versi tratti dalla scena II del primo atto di Macbeth, ci rendiamo immediatamente conto che il traduttore ha scelto di storicizzare l’opera. Un italiano di oggi difficilmente parla in questo modo.

Omologazione e straniamento

La seconda decisione che dovrà prendere il traduttore riguarda l’opposizione tra omologazione e straniamento. Qui subentra la distanza culturale. Se il testo è omologato o “addomesticato” (dall’inglese domestication), gli elementi e i riferimenti culturali che rinviano alla cultura di partenza vengono alterati a favore di un’italianizzazione del testo. È ciò che si è verificato nelle fiabe e nei cartoni, dove Goofy è diventato Pippo e Schneewitchen si è trasformata in Biancaneve.

Se un testo è straniato, invece, si percepirà la lontananza culturale e psicologica del mondo dell’autore, poiché il traduttore ha deciso di non manipolare i riferimenti culturali. Se in un racconto tradotto, ci si imbatte in Kartoffelsalat senza che venga spiegato che d’‘insalata di patate’ si tratta, si può affermare che il traduttore ha voluto applicare lo straniamento. Ma se s’incontra una parola come Vanillekipferl accompagnata da una descrizione del tipo “dolcetti alla mandorla” (a seconda del contesto può risultare importante anche l’informazione “tipicamente natalizi”), allora il traduttore ha voluto fare un passo in più. Evitando di far apparire il testo come oscuro per il lettore, ma allo stesso tempo cercando di non annullare quei richiami culturali che ci permettono di sapere qualcosa in più della cultura di partenza, il traduttore ha esplicitato un’informazione che rischiava di andare persa. Con tentativi simili a questo si assolve splendidamente al ruolo di ponte tra due culture; le traduzioni, infatti, non servono solamente ad avvicinare un mondo diverso al nostro, ma anche a stimolare la nostra curiosità nei confronti di questo mondo diverso, a spingerci verso la scoperta di una cultura alla quale, senza la figura del traduttore, non potremmo accedere.

Dosata con sapienza per nomi, oggetti e riferimenti culturali (e non per costruzioni e sintagmi), la strategia dello straniamento si rivela molto utile. Laddove mancano le competenze, si rischia, però, d’inciampare nel traduttese, la lingua artificiale di chi, non avendo le conoscenze adatte, produce calchi e strafalcioni sotto l’influenza della lingua di partenza.

Fonti:

Salmon, L. (2003), Teoria della traduzione. Una riflessione critica dalle premesse teoriche alla pratica concreta, Milano, Avallardi.

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