Di Rosaria Marta Cappiello

La traduzione italiana e quella portoghese a confronto

Chi non ha visto “Via col vento”? Il film uscì nelle sale italiane nel lontano 1951 (tra l’altro i miei nonni materni andarono al cinema a vederlo per il loro primo appuntamento), e tutt’ora continua a far parlar di sé: sicuramente avrete sentito della polemica dovuta alla censura che, sull’onda del movimento antirazzista, ha colpito anche la pellicola di Victor Fleming. Tuttavia, al di là delle posizioni che si possono prendere in merito, l’opera è di grande interesse dal punto di vista storico-linguistico e proprio in virtù della questione del razzismo. Il film naturalmente è ispirato a un libro, ed è su quest’ultimo che voglio incentrare la mia analisi. “Gone with the wind” di Margaret Mitchell venne pubblicato per la prima volta nel 1936. Si tratta di un romanzo che narra il percorso di vita di Rossella O’Hara, figlia di un irlandese che ha costruito la propria ricchezza grazie alle piantagioni di cotone in Georgia. Sfondo delle vicende, ma verrebbe da dire co-protagonista, la Guerra di Secessione americana. Nell’immaginario collettivo il titolo “Via col vento” è associato soprattutto al film. Forse è per questo e per la solita storia che “il libro è sempre più bello” che difficilmente se direte a qualcuno di stare leggendo “Via col vento” vi saranno fatti i complimenti per la lettura impegnata. Tuttavia il romanzo offre un affresco dell’America del sud dell’epoca degno di nota non solo dal punto di vista storico, ma anche da quello sociale. Infatti, sebbene non apertamente, viene trattata la questione femminile. Rossella O’Hara non può di certo definirsi una fautrice degli ideali femministi; allo stesso tempo però è quanto di più lontano ci sia dal ruolo di donna pacata e obbediente che la società le impone, e sempre più nel corso del libro si ribella alle regole maschiliste di questa società, finendo per esserne esclusa. Poi c’è la questione del razzismo, sulla quale mi dilungherò più avanti. Partiamo dunque dal presupposto che “Via col vento” è tutto fuorché un romanzo banale, ed anzi è molto attuale negli argomenti trattati.

Ho letto due versioni del libro: la traduzione italiana a cura di Ada Salvatore ed Enrico Piceni (Mondadori, 1997) e quella in portoghese brasiliano a cura di Francisca de Basto Cordeiro (Círculo do Livro, 1995). Nella versione portoghese, che ho letto per prima, l’opera è preceduta da una lettera che Margaret Mitchell stessa scrisse alla traduttrice, di cui cito un passaggio:

“Reconheço quanto a sua obra de tradutora deve ter sido delicada e difícil porque Gone with the wind não só está repleto de gíria, como cheio de modismos meridionais. […] Agradeço-lhe a maneira como ajeitou o dialeto dos negros. A natureza dos negros tem sido a pedra em que tropeçam alguams versões estrangeiras, uma vez que não existe população negra em muitos países europeus tornando-se, portanto, intraduzível a sua maneira de falar.”

“Capisco quanto il suo lavoro di traduttrice debba essere stato delicato e difficile perché Gone with the wind è pieno non solo di espressioni gergali, ma anche di espressioni idiomatiche meridionali. […] La ringrazio per il modo in cui ha adattato il dialetto dei neri. La natura dei neri è stato l’ostacolo in cui sono inciampate alcune versioni straniere, giacché in molti paesi europei non esiste una popolazione nera e il loro modo di parlare risulta quindi intraducibile.”

Non sono riuscita a capire fino in fondo cosa intendesse l’autrice del romanzo finché non ho letto la versione italiana dell’opera. Ne cito un passaggio, tratto dalle prime pagine, in cui interviene un personaggio nero:

“Si volse sulla sella e chiamò il negro.

«Jeems!»

«Badrone?»

«Hai sentito di che cosa parlavamo con miss Rossella?»

«Mai più, Mister Brent! Come bensare che io stare a spiare signori bianchi?»” La “p” che diventa “b”, i verbi non coniugati, che restano all’infinito, sono alcuni dei tratti distintivi del linguaggio dei neri in questa versione dell’opera. Il risultato è piuttosto grottesco: sembrerebbe che, più che rendere il linguaggio dei neri, si scimmiotti il loro modo di parlare. Il problema è che effettivamente, per ragioni storico-sociali, in Italia non si è mai formata una vera e propria comunità nera e di conseguenza non si è mai sviluppata una variante “nera” dell’italiano come invece è avvenuto per l’inglese e il portoghese. Se ci soffermiamo a riflettere su questa problematica capiamo quanto debba essere stato complesso il compito che era stato affidato ad Ada Salvatore ed Enrico Piceni. Inoltre non dobbiamo dimenticare che la loro traduzione venne pubblicata per la prima volta nel lontano 1937, epoca in cui non c’era la sensibilità attuale verso la tematica della discriminazione razziale. Tale aspetto si rifletteva inevitabilmente sul linguaggio: non c’è quindi da sorprendersi se la parola “nigger” venne tradotta con “negro”, che era il termine comunemente usato in riferimento a chi oggi definiamo “nero”, senza alcuna connotazione dispregiativa. D’altronde, nemmeno il politicamente corretto è riuscito ad apportare una risposta soddisfacente alla questione, e tutt’ora esitiamo tra “nero” e “di colore”, e quando scegliamo uno dei due finiamo comunque per chiederci se non avremmo potuto semplicemente evitare di usare una qualsiasi parola facente riferimento al colore della pelle.

Riporto di seguito lo stesso passaggio, tratto però dalla versione portoghese che ho letto, affinché possiamo fare un piccolo confronto:

“Brent voltou-se sobre o selim e chamou pelo pajem negro.

  • Jeems!
  • Sinhô?
  • Você ouviu o que estávamos a dizer a sinhá Scareltt?
  • Não, sinhô Brent! Então eu havera de espiá o que branco diz?”

Qui al posto di “badrone” abbiamo “sinhô”, termine tipico del linguaggio degli schiavi in Brasile, che lo usavano per designare “o senhor”, il signore. Da notare che nella battuta successiva Brent, personaggio bianco e di ceto superiore rispetto a Jeems, utilizza anche lui “sinhá” (il corrispettivo femminile di “sinhô”) laddove nella versione italiana usa “miss”. Trovo interessante la scelta portoghese in quanto rende bene l’idea trasmessa dal romanzo, in cui è possibile scorgere delle contaminazioni dei Ministrel shows, sul tipo di rapporto fra bianchi e neri in quella società. I neri erano subordinati ai bianchi e considerati esseri inferiori, soprattutto dal punto di vista intellettivo, in quanto le loro carenze erano imputate alla razza cui appartenevano e non alle condizioni sociali cui erano costretti. I bianchi avevano quindi un atteggiamento paternalistico nei loro confronti. Dunque il “sinhá” di Brent suggerisce che egli conforma il suo linguaggio a quello dello schiavo, nell’intento di approcciarsi in modo amichevole a un personaggio che considera inferiore.

Proprio alla luce di queste problematiche di recente il romanzo è stato ritradotto da Annamaria Bivasco e Valentina Guani. Le due traduttrici, oltre a “svecchiare” l’italiano, hanno creato un testo in linea con l’odierna sensibilità verso la tematica del razzismo, restituendo dignità ai personaggi neri, i quali inoltre non vengono più designati come “negri” (se non quando il tono è dispregiativo), bensì come “neri”, “schiavi”, “servi”, “servitù”, “domestici”, “braccianti”. Interessante anche la scelta di lasciare invariato il nome originale della protagonista, Scarlett, che nella prima traduzione, a causa della politica linguistica del regime fascista, che imponeva di tradurre persino i nomi propri, era stato reso con “Rossella”.

In conclusione, “Via col vento” e le sue traduzioni sono un ottimo esempio di come il linguaggio sia lo specchio della società. Il linguaggio è portatore di idee e valori in continua evoluzione e non potrebbe assolvere a questo compito senza evolvere con essi. Spero di avervi incuriositi e che anche voi, come me, non vediate l’ora di leggere la nuova traduzione dell’opera!

Link di approfondimento:

https://lanotadeltraduttore.it/it/articoli/la-nota-del-traduttore/romanzo/via-col-vento

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *